Alberto Prunetti: «108 Metri, narrativa working class che in Italia manca»

Uscito da poco per Laterza, 108 Metri di Alberto Prunetti è già in ristampa. La storia del protagonista deve tantissimo al vissuto dell’autore. Siamo nei primi anni duemila e un giovane laureato, figlio di operai, è costretto a lasciare Piombino con la speranza di trovare un impiego in Inghilterra.
Il protagonista del romanzo è il prototipo della Generazione X raccontata da Douglas Coupland nel 1991. Appartiene a quella schiera di ragazzi per i quali la mobilità sociale svanisce sotto gli occhi con la repentinità di un sogno.

Alberto Prunetti
108 Metri – Fonte: hoepli.it

La classe lavoratrice esiste ancora

Il protagonista di 108 Metri impara a conoscere “The new working class hero“. Anzi, ne entra a far parte con pieno merito, guadagnandosi i galloni sul campo come aiuto pizzaiolo in un ristorante italiano a Bristol, lava cessi in un centro commerciale, cambusiere nella mensa di una struttura educativa nel Dorset, bracciante nelle serre di lamponi e poi di nuovo in una pizzeria al servizio di titolari turchi che si fingono napoletani.

Un viaggio picaresco che aiuta Alberto Prunetti a raccontare figure formidabili di quella working class impegnata a combattere per la sopravvivenza, tra lavori umilianti e mal retribuiti, senza rinunciare al diritto di ribellarsi ai padroni avidi e incapaci. Il ‘cuoco pirata’ John Silver, l’aiuto-pizzaiolo ‘sabotatore’ Rodrigo e il coltissimo stura latrine Brian sono solo alcune delle personalità indomite e contraddittorie raccontate dall’autore nel suo affresco generazionale, spigliato nelle immagini e nello stile. Illustrazione dalle sonorità punk di un passato recente nel quale comincia a delinearsi quel futuro minaccioso che è il nostro presente, dove il libero mercato sta vincendo la sua guerra contro la classe lavoratrice. Qualità che spiegano l’enorme successo del romanzo e la sua subitanea ristampa.

Per altro, va aggiunto che 108 Metri non è il risultato di un’ispirazione isolata. Ma è invece il naturale proseguimento di un lavoro dedicato alla “classe lavoratrice“, categoria politica rilegata sempre di più nell’oblio. Nel 2012 Prunetti pubblicò Amianto, la biografia di suo padre Renato, metalmeccanico saldatore morto di asbestosi. Altra storia che racconta l’iniquità del mondo lavorativo.

È evidente quindi che la mano di Alberto Prunetti è mossa dalla volontà di dar voce ai lavoratori. «Viviamo in uno strano paradosso: gli operai non esistono più, si dice, ma poi ogni giorno ne muoiono almeno tre», rammenta l’autore. «Insomma, qualcosa non torna. Il punto è che la classe lavoratrice esiste ma nessuno parla di lei. E la narrativa non aiuta. Il romanzo nasce come strumento per la costruzione dell’immaginario della borghesia». Invece «in Inghilterra la working class è riuscita, con le buone o le cattive, a mettere le mani sulla letteratura. Cosa pensate sia la narrativa di Irvine Welsh? Beh, qualcuno doveva farlo anche in Italia e io mi ci sono messo d’impegno. Tanto sono spesso disoccupato, posso farlo».

Alberto Prunetti – Fonte: wumingfoundation.com (Fotografia di Stefano Pacini)

La narrativa working class di Alberto Prunetti

Se rispetto ad Amianto il tema resta invariato, 108 Metri soddisfa nuove esigenze autoriali incubate da Alberto tra un’opera e l’altra. «Provo ad elencare le tre esigenze che forse erano più incalzanti. Raccontare un’esperienza di emigrazione particolarmente complessa, lontana dalla retorica della “fuga dei cervelli”; ricostruire la distruzione della cultura operaia in cui sono cresciuto; costruire un pezzo di un nuovo immaginario. E forse anche alimentare una narrativa working class che in Italia non è granché praticata».

Il risultato è un ibrido del tutto inesplorato dalle nostre parti, che Marco Ambra chiama “epica stracciona” nella sua recensione per Il lavoro culturale. Perché i protagonisti dell’ultima fatica letteraria di Alberto Prunetti sono “nuove eroi“. Pur avendo trascorsi differenti, sono uniti da qualcosa di molto profondo, che va al di là delle circostanze.

«Gli eroi fanno cose che i comuni mortali non fanno e spesso gli dei li castigano perché non sono stati al loro posto. I protagonisti del mio libro – spiega Alberto – sono sguatteri, lava-cessi, figli di operai con una laurea in tasca ma perennemente disoccupati. Si spingono oltre le colonne d’Ercole e rompono l’ordine delle cose». Ad accomunarli sono «le condizioni di sfruttamento in cui versano le loro esistenze e la loro tenace allegria, con cui fanno a testate con le cose. Danno sempre testate: contro i mulini a vento, contro il bancone di un pub o la testa di un rompiscatole».

Esperimento linguistico

Il ritmo del testo è sincopato grazie all’uso di parole ed espressioni in lingua inglese. Per quale ragione? Forse per essere più aderente alla realtà. Oppure per trasmettere al lettore il senso di disorientamento di una persona che si trova a vivere in un Paese straniero. «Più la prima», rivela Alberto. Infatti «ho cercato nel primo capitolo di restituire l’interlingua tra italiano e inglese che è lo strumento con cui gli italiani emigrati negli UK ricostruiscono un strumento per comunicare nel paese di arrivo. Però l’ho reso cosmopolita: Silver parla cinque lingue in una frase. Del resto sono secoli che scappa da un porto all’altro. Avevo un modello in testa: il Salvatore de “Il nome della rosa”. È una sfida linguistica: la lingua perfetta, quella di cui lo stesso Eco scrisse nei suoi saggi. Che oggi non è quella del purismo linguistico ma la lingua meticcia e ibrida degli immigrati».

Leggendo 108 Metri ci si imbatte nella musicalità punk, marchio di frabbrica del realismo visionario e beffardo ricercato da scrittori come Irvine Welsh e Chuck Palahniuk. «Welsh c’è ma anche tanti altri», ammette Alberto. «Praticamente tutti quello che ho citato negli eserghi, da De Ruscio a David Storey e Anthony Cartwright. Più modelli anglosassoni che italiani». Anche perché «mai camminiamo da soli: parlando, nelle nostre parole risuonano le parole dei nostri interlocutori. Scrivendo, emergono le nostre letture. Credo anche di aver fatto un lavoro di officina linguistica: mi sono costruito una lingua, forse più che nel chiuso del garage, nel corso dei miei viaggi, dove lavorando ho appreso le lingue straniere».

«A 28 anni parlavo solo l’italiano», ricorda Alberto. «Oggi leggo in quattro lingue e lavoro come traduttore. La mia formazione linguistica non è stata di tipo accademico, ho appreso davvero l’inglese nei cessi».

Alberto Prunetti
Classe operaia – fonte: stampacritica.org

I segni del nostro presente nell’Inghilterra degli anni zero

Alle immagini della sua esperienza estera, Alberto Prunetti alterna quelle di Piombino, la sua terra natale dove le fabbriche, dopo anni gloriosi, hanno chiuso definitivamente i battenti. In più ci sono allucinazioni che richiamano il peggior conservatorismo rappresentato dalla Tatcher, e la Brexit che rappresenta il fallimento di un progetto ispirato a grandi ideali e mai realizzato. E’ come se nell’Inghilterra dei primi anni duemila ci fossero già i segnali della deflagrazione avviata dalla crisi del 2008.

«Certo», conferma perentorio Alberto. «Per come lo vedo io e per come lo racconto in Amianto e in 108 Metri, c’è un quadro che parte con la crisi economica del ‘73 (anno in cui sono nato) e continua fino alla marcia dei quarantamila della Fiat, poi lo sciopero dei minatori inglesi soffocato dalla Thatcher e il nuovo liberismo, con la fine della ‘società’ e il trionfo degli ‘individui’: “Non esiste la società, esistono gli individui e le famiglie”, disse la Thatcher. E migliaia di famiglie working class finirono sul lastrico mentre si gonfiava la logica del ‘siamo tutti ceto medio’. E se non diventi ceto medio muori, a Dudley, nel Black Country, come a Piombino o Taranto. Questo, racconto nei miei libri».

Purtroppo i nostri tempi sono peggiori degli anni ’90 e hanno prodotto la gig economy. E Alberto ne è pienamente cosciente. «Oggi i figli di quegli operai che erano riusciti con le lotte ad aumentare i salari, a conquistare protezioni sociali per poter far studiare i propri figli e a comprarsi la casa, sono costretti a fare una vita di lavoretti, tra droghe, espedienti e pizze a domicilio. E’ un quadro che tiene e che sto provando a raccontare in una serie di libri».

Un bilancio generazionale

Il romanzo di Prunetti è quasi autobiografico. E a conti fatti, essendo chi scrive suo coetaneo, viene da chiedergli che idea si è fatto della nostra generazione. «Dovresti chiedermelo tra trent’anni, quando avrò un quadro più chiaro», risponde Alberto. «Mi considero parte di una generazione e di una classe sociale crepuscolare, siamo come i cowboy dei film western di Peckinpah: ricordi Il mucchio selvaggio? Abbiamo conosciuto il mondo dell’epopea classica, il western dei cavalli e dei conflitti sociali, e ci ritroviamo nella nuova epoca delle automobili e dell’individualismo rancoroso».

«Il mondo in cui siamo cresciuti è stato spianato e dalle rovine non emerge nulla – conclude con rammarico Alberto -. Rimane solo una Gatling fumante e un orizzonte indistinto e lontano verso cui camminare, con qualche amico che ci guarda le spalle».

Michele Lamonaca

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