Ieri ho visto: L’angelo sterminatore di Buñuel

Comincio dalla fine. Appena terminato il film, il primo ad alzarsi per andare via ha espresso, tra il serio e il faceto, il timore di non riuscire a varcare la soglia della stanza in cui ci siamo riuniti, suscitando in noi tutti una ridarella contagiosa e la paura segreta che potesse realmente avverarsi ciò che accade ai protagonisti della storia.

Suggestione durata il tempo di un brivido, con l’intensità del sogno. Merito dell’estro con il quale Buñuel imprigiona la morale borghese in un involucro narrativo misterico – da genere fantasy, ben oltre l’onirico – per catturarne l’essenza ipocrita, reazionaria e clericale.

angelo sterminatore
Luis Buñuel – Fonte: ecodelcinema.com


L’angelo sterminatore, film girato nel 1962, durante il lungo esilio in Messico del regista spagnolo, è ambientato in una villa sfarzosa, in “via della Provvidenza”, dove una comitiva di borghesi altolocati si riunisce dopo essere stata a teatro. L’atmosfera diventa subito inquietante. Il personale, cuochi e maggiordomi, nonostante la cena da servire, abbandonano uno dopo l’altro, in maniera inspiegabile, la magione presso la quale sono a servizio, come sopraffatti dal presentimento che qualcosa di misterioso stia per accadere.

Dopo cena, l’allegra compagnia di liberi professionisti, artisti e imprenditori, raggiunge il salotto per chiacchierare, bere qualcosa, fumare un sigaro, scoprendo di lì a poco di trovarsi in una prigione senza sbarre.

Una forza oscura, un sortilegio sembra impedire a ciascuno degli invitati e agli stessi padroni di casa di oltrepassare la soglia che divide il salotto dal resto dell’abitazione. Soglia incorniciata da un sipario aperto perché l’idea dell’incantesimo, attinente al genere fantastico, è in realtà lo strumento narrativo utilizzato da Buñuel per aiutare i suoi personaggi a mettere in scena se stessi.

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L’angelo sterminatore – Fonte: econonuovo.blogspot.com

La forza oscura che impedisce ai presenti di abbandonare il salotto e tornare a casa è la desolante pochezza morale degli stessi convenuti, che si manifesta inizialmente nei sui aspetti apparentemente più innocui: il rispetto delle convenzioni a cui sono assuefatti, la necessità di salvare le apparenze e l’opportunismo che aiuta ad approfittare di qualunque circostanza.

Avvinti da uno strano torpore, gli ospiti si accasciano dove possono. Uno di loro si mette in libertà togliendosi la giacca, il padrone di casa fa altrettanto per non mortificarlo, seguito da tutti gli altri, non ha la forza di congedarli perché potrebbe apparire sgarbato. In fondo l’occasione si rivela propizia per gli adulteri, che riescono a consumare nell’ombra i loro amplessi. Al mattino seguente c’è chi con piglio deciso è pronto ad andar via, salvo ripensarci per approfittare della colazione già pronta sul carrello sospinto dall’unico maggiordomo rimasto, che ha appena oltrepassato la soglia del salotto. Ci sono altri che vorrebbero tornare a casa, ma sta male andar via per primi. Le scuse per non agire, per non cambiare le cose e condurre una vita dedita alla futilità sono sempre a portata di mano.

Le convenzioni nascondono un abisso materialistico che risucchia verso il fondo come sabbie mobili. Così, mentre guardavo il film, ho ripensato all’episodio “I mie cari”, gioiellino diretto da Bolognini e scritto da Sonego, inserito nel film a episodi “La mia signora”, in cui un Alberto Sordi dal viso emaciato, steso nel suo letto d’ospedale, riceva la visita di moglie, figlio e suocera. L’anziana donna, ben curata e ancora piacente, si prodiga in un discorso aberrante secondo cui il povero genero, sposandosi prima e ammalandosi dopo, sta venendo meno ai suoi doveri di marito e padre, causando una situazione che “continua a precipitare, turbando le acque delle convenzioni. E la vita si sa – aggiunge la donna – è tutta fatta di convenzioni”.

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L’angelo sterminatore – Fonte: mentaerosmarino.it

I suoi “cari” hanno, del povero malato, una considerazione esclusivamente utilitaristica: il capofamiglia è uno mero strumento, necessario a garantire la loro agiatezza. Amara verità confermata dalle parole agghiaccianti della moglie, che prima lo paragona ad un oggetto reso inutile da un difetto di fabbricazione e poi esprime tutto il suo disappunto per l’impossibilità di chiederne la sostituzione, per giunta con l’obbligo di amarlo. La conclusione di questo ragionamento? “Un uomo, se ama davvero sua moglie, non si ammala”. E se non guarisce, allora vuol dire che non l’ama affatto.

La stessa oscena immoralità che i borghesi di Buñuel tirano fuori quando si accorgono di ciò gli sta accadendo. Messi difronte alla misteriosa impossibilità di metter piede oltre il salotto, impauriti, lasciano cadere la maschera mostrando il loro vero volto. I modi affettati e la presunta superiorità intellettuale lasciano il posto all’arroganza, all‘invidia, alla violenza e alla superstizione. Quando la sete e la fame cominciano a farsi sentire, le convenzioni rivelano la loro inutilità e ipocrisia.

Subentra un istinto egoistico di sopravvivenza, che trascende nella violenza verbale, nella necessità di autoassolversi trovando nel padrone di casa il capro espiatorio e addirittura nell’invocazione delle forze del male, pur di sfuggire a quella trappola. Ma sono loro stessi il male e nessuno potrà davvero salvarli. La polizia e i curiosi assiepati all’esterno non riescono ad oltrepassare il cancello della villa. Ormai disperano sulla possibilità di trovare qualcuno vivo. Ma i borghesi sopravvivono grazie al gregge di pecore che pascola tranquillamente per casa – principale elemento surrealista e simbolico del film – finendo tra le fauci degli asserragliati, per soddisfare l’appetito famelico di una classe sociale pronta a sacrificare tutti gli altri pur di conservare il proprio status.

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L’angelo sterminatore – Fonte: econonuovo.blogspot.com

 

Sarà Letizia, inizialmente sulla bocca di tutti per la sua verginità, a liberarli in quanto simbolo di purezza, obbligandoli a ritrovare la posizione e le parole della prima sera, quando erano tutti pronti per andar via. Ma questa volta parole e gesti non sono più una recita; sono pensati, resi veri dalla sofferenza e dalla paura.

I malcapitati riescono finalmente ad uscire dal salotto e dalla villa. La padrona di casa, come promesso, organizza un Te Deum di ringraziamento, ma al termine nessuno tra la folla riesce ad abbandonare la chiesa. La morale borghese e la morale cattolica vanno a braccetto, si sostengono l’un l’altra, – urla Buñuel per immagini. E anche in un luogo sacro, dove lo spirito dovrebbe prevalere sulla materia, il sortilegio della morale costruita su convenzioni vuote e apparenze da salvare erige una gabbia invisibile.

Io invece, mentre uscivo fuori, all’aria aperta, ho riso di me stesso quando ho avuto una piccola esitazione oltrepassando la soglia tra dentro e fuori. Poi, fumando in tutta serenità la mia sigaretta, ho ripensato con diletto alla fascinosa bellezza del film.

Testo di Michele Lamonaca

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