Ieri ho visto: Come sono buoni i bianchi di Marco Ferreri

I titoli di testa scorrono sul fermo immagine di una vecchia cartina dell’Europa, accompagnati inizialmente dal malinconico Quartetto per flauto in Re maggiore di Mozart, che tornerà più volte a incorniciare le atmosfere del film.

La qualità distorta delle immagini e del sonoro appartengono a una vecchia registrazione su videocassetta, riversata in digitale. In basso a destra c’è la scritta “R a i”, in Handel Gothic, carattere tipografico usato dal 1982 al 2000, prima di cedere il posto al Futura di Paul Renner.

Come sono buoni i bianchi
Marco Ferreri


L’insieme ha un effetto nostalgico, per il tempo passato e per il cinema barbarico di Marco Ferreri, segregato negli spazi vuoti dei palinsesti notturni. Le agenzie culturali del nostro paese, Rai compresa, hanno messo in soffitta il suo talento visionario, che riusciva a scovare nel presente le immagini del futuro. Perché Ferreri è davvero “Il regista che venne dal futuro”, come racconta Mario Canale nel suo splendido documentario realizzato nel 2007.

Come sono buoni i bianchi non fa eccezione. Il film del 1988, girato e ambientato in Sudan – come suggerisce la cartina geografica sulla quale scorrono i titoli di coda – previde per voce del missionario Jean-Marie la diffusione del fondamentalismo islamico e lo scoppio della Jihad, che dal 2001 in poi colpirà le città simbolo dell’Occidente con attacchi sanguinari, sfociando nel sogno delirante del Daesh, lo Stato Islamico dell‘Isis.

Il missionario Jean-Marie vuol tornare a casa perché non riesce più a convertire gli indigeni. Tra i discendenti degli antichi regni nubiani, condannati a morire di fame e di sete, il messaggio politico del Corano risuona più convincente ed efficace rispetto a quello allegorico della Bibbia. Morire per una guerra religiosa è molto più gratificante che morire di stenti.

Ferreri coglie ancora una volta nel segno. Fa impressione scoprire che l’anno successivo l’uscita film, il presidente Sādiq al-Mahdī fu destituito da un colpo di stato. E che al suo posto si insediò un regime militare dominato dal Fronte Nazionale Islamico. Da quel momento in poi il Sudan diventò il ricettacolo di molti gruppi terroristici di stampo fondamentalista, dando ospitalità ad Osama bin Laden, fondatore di Al-Qaeda.

In Come sono buoni i bianchi, oltre alle capacità divinatorie, Ferreri sfodera il suo linguaggio caustico dove le immagini sopravanzano i dialoghi, ridotti all’essenziale, per attaccare con ferocia l’ipocrisia e l’inutilità delle missioni umanitarie, che in termini pratici sono paragonabili all’aspirina usata per curare il cancro. Gli slanci di generosità dell’Occidente sono utili esclusivamente ai suoi abitanti. Aiutano a scrollarsi di dosso il senso di colpa per il colonialismo che martirizza il continente africano da ormai da cinque secoli.

Come sono buoni i bianchi
Sahel – Bordo del deserto

La storia del film ruota attorno a un gruppo di volontari provenienti dall’Italia, dalla Spagna, dalla Francia e dall’Olanda, che atterra in Africa con l’obiettivo di portare viveri e giocattoli ai bambini del Sahel, fascia di territorio che dall’Atlantico arriva al Mar Rosso, che da nord a sud passa dal deserto del Sahara alla savana del SudanSulla pista, ad attenderli, ci sono gli autisti dei camion pieni di pasta, passata di pomodoro e giocattoli, che ingannano il tempo bambinescamente, giocando a calcio e fantasticando sull’arrivo di belle donne da corteggiare. In fatto di cialtroneria e meschinità i nuovi arrivati non sono da meno. Più che una spedizione umanitaria ci troviamo di fronte a una decina di persone che somigliano a una compagnia di guitti male assortita.

Paolo, l’organizzatore della missione, è un tipo borioso e nevrotico, che non vede l’ora di arrivare alla meta per autoproclamarsi uomo buono e giusto. Nadia è fuggita da Parigi per dimenticare l’insuccesso come moglie e madre, con la speranza di ridare un senso alla propria vita aiutando i più bisognosi. Michele, autista italiano, è un provincialotto ignorantello, ingenuo ma di buon cuore. Attorno a questi tre personaggi, gravitano tutti gli altri, un po’ folli e un po’ svampiti, relegati dalla sceneggiatura in posizione fin troppo periferica.

Come vuole il copione del road-movie, il viaggio e quindi la storia vivono degli incontri che si susseguono lungo il cammino. I bianchi vengono messi difronte a due tipi di “neri”. Da una parte ci sono quelli perfettamente integrati nel sistema capitalistico, avidi e corrotti come i funzionari che accolgono la missione per farsi pubblicità, salvo poi depredarla con l’inganno di una parte del carico.

Dall’altra ci sono i “neri” che non hanno rinunciato alla propria cultura tribale, arcaica, e per questo affrontano i bianchi per quello che sono: invasori, approfittatori, latori di una cultura aliena e predatoria. Non fa differenza se si tratti di una tribù di guerrieri dipinti di bianco o di indigeni che vestono abiti sfarzosi e appartengono ad un regno che ancora resiste alla modernizzazione e che è pronto a sposare l’Islam. In entrambi i casi, che si tratti di tintura sulla pelle o di una maschera, il colore bianco serve a spaventare gli intrusi a bordo dei loro mezzi meccanici, perché in Africa il bianco è il colore dei defunti, serve ad allontanare la morte e i suoi demoni.

Come sono buoni i bianchi
Come sono buoni i bianchi

Un’antinomia che sottolinea l’estraneità degli occidentali rispetto a una cultura che rifiutano di comprendere per un complesso di superiorità. Ignoranza che sarà fatale a Michele e Nadia. La compagnia raggiunge un’oasi e il suo specchio d’acqua tra le dune del deserto. Assetati dal viaggio non esitano a tuffarsi con i vestiti sporchi di sabbia, polvere e sudore. Il camion di Michele è rotto. Dovrà restare lì e aspettate l’elicottero con a bordo il pezzo di ricambio. Nadia si offre di fargli compagnia.

L’abbandono momentaneo della coppia è lo snodo della trama che nobilita il film – fino a quel momento un po’ meno sorprendente e un po’ più convenzionale rispetto al solito Ferreri, – in cui le atmosfere oniriche del surrealismo scivolano verso la farsa, con situazioni da commedia all’italiana.

Soli come Adamo ed Eva nell’Eden, Nadia e Michele vivono il loro idillio amoroso. Ma non sono in vacanza sulle spiagge della Sardegna o della Costa Azzurra. Sono nel deserto del Sahara, dove spensieratezza e divertimento non hanno diritto di residenza. Le condizioni estreme di quella terra desolata comportano un pericolo di morte che incombe sulla testa degli uomini in ogni istante.

L’indomani l’oasi viene raggiunta da una tribù in viaggio nel deserto e in apparenza pacifica. Il capo guarda i due bianchi con sospetto, li apostrofa con fastidio nella sua lingua incomprensibile. Un membro della tribù parla italiano perché ha lavorato a Mazzara del Vallo fino quando c’era lavoro. E chiede a nome del capo perché hanno sporcato l’acqua dell’oasi, errore imperdonabile in quella terra afflitta dalla siccità. Michele e Nadia non riconoscono l’errore, mentono, e il giovane traduttore, sapendoli oramai in pericolo, li invita più di una volta ad andare via.

Come sono buoni i bianchi
Come sono buoni i bianchi – Fonte: longtake.it

Ma i due, come bambini ingenui e inesperti, non annusano il pericolo imminente. Michele accetta gli abbracci inaspettati di quella gente come un gesto di benvenuto, un segno di accoglienza simile a quello in uso dalle sue parti, e invita Nadia a fare lo stesso. In realtà quello è un gesto di commiato, passo iniziale di un rito vudù di cui saranno entrambi vittime sacrificali.

Convinti che sia un dono, buttano giù una bevanda color latte che li stordisce e li rende inermi. La parte restante del rituale verrà scoperta dall’equipaggio dell’elicottero, arrivato troppo tardi in loro soccorso. Il ragazzo che parlava italiano ha ripreso tutto con la telecamera di Michele. I soccorritori assistono agli orrori della cerimonia: “se li sono mangiati!”. E il titolo che sembrava allusivo e metaforico si rivela terribilmente didascalico. Michele e Nadia hanno portato a termine la loro missione. Hanno sfamato quei poveri diavoli del Sahel. Giustizia è fatta.

 

Testo di Michele Lamonaca

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