Ieri ho visto: Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene

Alla fine siamo rimasti in due. I due che si occupano di comunicazione per lavoro. Gli altri si sono defilati in silenzio, senza abbandonarsi agli atti di vandalismo che segnarono l’uscita nelle sale cinematografiche di Nostra Signora dei Turchi.

Evento prodigioso che solo Carmelo Bene poteva scatenare, riversando su pellicola la sua poetica dei significanti. Il film da lui scritto e diretto nel 1968, in piena contestazione, una volta presentato alla Mostra di Venezia di quello stesso anno, divise immediatamente la critica e gli spettatori in due opposte e furenti fazioni, elemento distintivo di tutta la carriera artistica del genio pugliese.

Nostra Signora dei Turch
Nostra Signora dei Turchi


Tratto dall’omonimo romanzo, edito nel 1966, il film stravolge il linguaggio cinematografico. L’ordinarietà della trama lascia il posto a sequenze tra di loro indipendenti. Guardare Nostra Signora dei Turchi è come entrare nella sala di un museo ed osservare i quadri del medesimo pittore, allineati su pareti circolari. Il filo che li unisce è molto sottile, quasi impercettibile, perché espressione intima del Carmelo Bene guerriero, votato a scrostare se stesso e il mondo dalle sovrastrutture e gli equivoci della noiosissima quotidianità.

Primo di cinque film, Nostra Signora dei Turchi è un’opera autobiografica, nella quale l’autore riversa con furiosa inventiva tutti i principi della sua poetica, del suo pensiero filosofico, che il sottoscritto ha avuto la fortuna di incrociare tanti anni fa, nelle due puntate del Maurizio Costanzo Show in cui, Uno contro tutti”, C.B affronta una pletora di giornalisti e critici fossilizzati nella cronaca, poco propensi a guardare oltre la grigia rappresentazione scenica dell’ordinario.

Il protagonista della non-storia è un giovane pugliese di Santa Cesarea Terme, alter ego del regista. La sequenza iniziale osserva attraverso lenti deformanti e colorate un Palazzo moresco “attiguo” alla casa del giovane, e l’ossario dei martiri della Cattedrale di Otranto, mentre la voce narrante rievoca lo sbarco dei Turchi in terra salentina e l’uccisione degli ottocento cristiani, le cui ossa testimoniano la scelta mortale di non convertirsi all’Islam.

Nostra Signora dei Turchi
Nostra Signora dei Turchi

Le inquadratura di Palazzo Sticchi, (Santa Cesarea Terme), e della chiesa otrantina ci appaiono alla stregua di ricordi lontani che acquistano la vaghezza del sogno, come accade ai ricordi d’infanzia. Sono, presumibilmente, immagini archetipiche del protagonista bambino, e quindi del piccolo C.B., che servì “un’infinità di messe” come chierichetto, influenzato dalla madre, cattolica fervente e praticante.

I due edifici introducono l’uso massiccio che Carmelo Bene fa del “correlativo oggettivo”, concetto poetico utilizzato dai suoi amatissimi Eliot e Montale, obbligando lo spettatore alla complicata e fascinosa interpretazione istintiva di un’opera tremendamente vitale.

Luoghi simbolo della cultura natia di C.B., la cattedrale con i suoi martiri rappresenta le due forze che da sempre incidono sull’esistenza degli individui partoriti nel “Sud del Sud dei Santi”. Ovvero, il sentimento religioso e la morale della cristianità, appesantiti come macigni dall’incancellabile e dogmatico status del peccatore, dal senso di colpa per la crocifissione del Salvatore; distorti dall’ignoranza che scade nell’adorazione pagana della divinità e de i santi. Il Palazzo moresco è invece la via di fuga esotica dalla dimensione disumana e opprimente della religiosità.

Il film racconta la lotta di liberazione interiore da queste forze, ingaggiata contro se stesso dal giovane protagonista – ovvero da C.B, -, ricorrendo finanche a gesti autolesionistici come lanciarsi dal balcone di casa. Una lotta furente che ferisce il corpo e costringe il giovane ed errare avvolto da bende. Ma c’è un altro mostro da abbattere, scorto per noi tutti dalla lucidità ultraterrena di Carmelo Bene, smascherato senza sosta nel suo essere “macchina attoriale”. Il mostro del Linguaggio che “ci trafora”, con i suoi “buchi” e i suoi “difetti”, illudendoci di “essere”, e di “dire” quel che pensiamo.

Nostra Signora dei Turchi
Nostra signora dei Turchi -Fonte: ewsstandhub.com

La non-trama del film procede per dipinti, pale d’altare impresse su celluloide che sono “schiaffi alla vita mediocre e puttana”. Ripercorrono quel processo di “abrogazione del soggetto”,  “abrogazione dell’io” a cui Carmelo Bene ha dedicato la sua intera esistenza. E Nostra Signora dei Turchi concede la possibilità di ammirare il “miracolo” a chi non hanno avuto la fortuna di goderselo in teatro.

Messa difronte alla cinepresa, la macchina attoriale stravolge e fa parodia della forma e dei codici cinematografici, mandandoli in cortocircuito fino a seppellire il “significato”, perché “sempre si parla di cazzate”, ed elevando il “significante” ad unico vero protagonista del film.

Il giovane alter ego di C.B. vaneggia con se stesso. Lo scambio di battute tra lui e gli altri personaggi si sovrappongono con i rumori di fondo, sono ridondanti, incomprensibili, a prima vista inutili. Invece, in questo caos apparente, ispessito dall’abrogazione delle dimensioni di spazio e tempo, le espressioni convenzionali, ripetute in maniera instancabile, ossessiva, come “giochi di parole o parole di giochi”, si purificano rivelando le loro verità filosofiche.

Nostra Signora dei Turchi
Nostra Signora dei Turchi – Fonte: Youtube.it

Ma nostra Signora dei Turchi è innanzitutto “frantumazione dell’io”, come spiegò lo stesso C.B. in Vita di Carmelo Bene, autobiografia scritta in collaborazione con il giornalista Giancarlo Dotto. Nella piazza del paesino pieno di gente, mezzo nudo e col sedere bene in vista nel farsi una puntura, il giovane protagonista mette alla berlina se stesso per deridere l’ipocrita senso del pudore e della riservatezza che nella provincia meridionale acquista un valore sacrale, ma facilmente sacrificabile quando si tratta di invadere e sparlare dell’intimità altrui.

Autobiografico fino in fondo, non poteva mancare la stoccata alla sempre professata inutilità del Ministro del Turismo e dello Spettacolo, a cui il giovane scrive una lettera che brucia un secondo dopo. E all’industria culturale, rappresentata dalla personalità morbosa e delirante dell’editore-esploratore.

Viste le premesse, gli attacchi alla Chiesa ufficiale e ai suoi attori sono i più numerosi e cruenti. Santa Margherita, vergine e martire nata in Turchia, protettrice dei moribondi, si manifesta ripetutamente in soccorso del giovane protagonista, che rifiuta ogni volta il suo aiuto, e implicitamente, gli inutili postulati della religione. Meravigliosa la scena sulla barca, in mare aperto, in cui lui cerca di umanizzarla, dando vita ad un gustoso esempio di incomunicabilità.

Lo stesso dicasi per la scena girata nella cucina della villa paterna di C.B., sempre a Santa Cesaria Terme, dove l’attore si triplica, materializzando una trinità composta dal frate indaffarato ai fornelli, ingordo, lascivo e iracondo, che maltratta il novizio e il giovane protagonista.

Di allegoria in allegoria – espressione a cui ricorro per l’impossibilità di riassumere in poche pagine il teatro, la letteratura e la poesia abbracciati da questo impareggiabile flusso di coscienza – ecco irrompere un momento di purezza. Un bambino cammina sul pavimento a Mosaico della Cattedrale d’Otranto, che è a misura d’infante, e allora il piccolo sembra ascendere sull’Albero della Vita. Assieme al bambino c’è una ragazza che s’inginocchia davanti all’ossario. Il teschio di un guerriero, tra i martiri, si rivolge a lei per chiederle degna sepoltura.

Nostra Signora dei Turchi

Il momento di purezza si prolunga nella stessa cucina del frate, dove la ragazza cade in estasi apprestandosi banalmente a lavare le stoviglie. In pochi gesti la vediamo incarnare il femmineo della bambina, della Madonna da adorare, della strega incantatrice, che diventa oggetto erotico del guerriero in armatura, posseduta in un amplesso goffo e cigolante. Ancora una parodia, questa volta della letteratura cavalleresca e del naturalismo.

Esausto dopo questa demenziale ricerca di libertà, il giovane protagonista si accascia ai piedi dell’altare dove Santa Margherita, levitante, lo guarda spirare in quanto archetipo dell’incomprensibile e dell’irraggiungibile da cui ci si libera solo con la morte. Perché sono «cretini» quelli che «hanno visto la Madonna» e quelli che «non l’hanno vista», come recita il celebre monologo, altra vetta del film e della filosofia di C.B. sull’impossibilità di realizzazione della natura umana.

Testo di Michele Lamonaca

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