Michele Mari, La stiva e l’abisso: siamo le storie che siamo

Il terzo romanzo di Michele Mari, intitolato La stiva e l’abisso, celebra il potere taumaturgico delle storie ricorrendo all’archetipo letterario dell’avventura marinaresca.

Alla semplicità della trama, che vede un galeone spagnolo in balia di una bonaccia interminabile, costringendo gli uomini del capitano Torquemada ad una passività soverchiante, si contrappone un sofisticato ordito allegorico. Qualità del romanzo dovuta inizialmente alla forza simbolica del mare, inscritta come su pietra nell’antro dell’inconscio collettivo riconducibile all’origine della vita, e che per proprietà transitiva si estende a tutte le storie legate a questo contenitore ancestrale.

La stiva e l'abisso
La stiva e l’abisso

Partendo da una base così solida, nonostante la consistenza liquida, Michele Mari si appella ai suoi amori letterari e al suo indiscutibile talento per costruire una vicenda plurivoca, in cui ci si smarrisce  con diletto. L’intreccio vede l’alternarsi contrappuntistico dei paragrafi abitati dal monologo interiore del capitano Torquemada, che s’interroga sul proprio destino e su quello della nave, e dei paragrafi dialogati, nei quali lo stesso Torquemada, il suo secondo Menzio e gli altri marinai, aiutano il lettore a comprendere ciò che di misterioso sta accadendo a bordo.

In La stiva e l’abisso, Michele Mari sembra affidarsi fondamentalmente alla lezione dell’amato Melville. La bonaccia che in Benito Cereno gravita sulla baia di Santa Maria, isoletta vicina alla parte estrema della costa Cilena, è come se si fosse spostata per un fenomeno meteorologico-letterario sulla desolata porzione di oceano occupata dal galeone spagnolo immaginato dallo scrittore milanese. Nel passaggio, l‘assenza di vento si è fatta definitiva, costringendo i marinai alla totale e debilitante inoperosità. La foschia impedisce qualunque tentativo di orientarsi, la caligine si è infiltrata nel legname e nei cuori dell’equipaggio, fino a tramutarsi in stato d’animo. Uno scenario che oltre a far perder la rotta può far perdere il senno, e che Mari completa richiamando dagli abissi marini creature da manuale della zoologia fantastica.

La stiva e l'abisso
Herman Melville

Moby Dick di Melville, seppure ammantata di un’alea soprannaturale e dotata di dimensioni leviataniche, rimane un cetaceo appartenente alla famiglia dei balenidi. Invece gli strani pesci di Michele Mari posseggono davvero poteri miracolosi. Grandi come tonni, ma molto più belli, di notte saltano a bordo della nave comandata da Torquemada. Ognuno di loro visita un membro dell’equipaggio, scelto con un criterio insondabile. I rudi marinai vengono conquistati dall’aria «mite e gentile», dai colori sgargianti e iridescenti, differenti per ciascun esemplare, dalle pinne laterali che si prolungano in fruste, dalla cresta dorsale «sfrangiata» come «le code degli uccelli del Paradiso» e dalle «squame pentagonali», cinque per lato, che ricordano «la plastronatura di una corazza».

L’aspetto «leggiadro» e di grande «nobiltà» degli ospiti inattesi crea i presupposti per un rapporto a cui i marinai visitati non sanno più rinunciare. L’uomo abbraccia il pesce come fosse una donna e guardandolo negli occhi subisce una specie di reincarnazione. Rivive in prima persona le storie di uomini morti in mare, mangiucchiati sui fondali da quegli stessi pesci, che portano nello stomaco i bulbi oculari dei defunti. Così c’è chi si ritrova nel bel mezzo della battaglia navale tra l’Invincibile Armata guidata dal comandate Sotomayor e la flotta inglese di Sir Francis Drake, o nei panni di un capitano vittima di un’esecuzione sommaria e costretto ad un tuffo mortale, dopo l’ammutinamento dell’equipaggio.

I marinai di Torquemada vivono un’esperienza più erotica e pervasiva di quella tra insegnante e discepolo, sublimato per l’appunto con l’autoerotismo, così sconvolgente da condurre alcuni alla pazzia, ovvero a restare intrappolati nelle identità dei defunti.

Difronte all’abbandono fisico e morale indotto dalla bonaccia, allegoria della realtà monotona e deprimente, gli uomini del galeone ricevono la possibilità soprannaturale di imparare e di arricchirsi, rivivendo in maniera soprasensibile storie altrui, arrivando a discutere del senso della vita in maniera profonda, filosofica, come mai avrebbero immaginato, vista la loro bassa estrazione sociale. «Io sono le storie che sono», afferma a un certo punto uno dei marinai, aiutando Mari a svelare il nocciolo della questione.

La stiva e l'abisso
Il seduttore di Magritte- fonte: storiedimare.wordpress.com

Guardare controluce l’allegoria del suo romanzo, aiuta a mettere a fuoco una verità universale che spesso viene scambiata per una banalità. La vita è una storia. Renderla interessante dipende dal suo autore e protagonista. La buona riuscita del lavoro dipende dalla ricerca di esperienze dirette e dall’ascolto delle storie altrui, senza giudizi e pregiudizi. Ciò che i pesci fantastici di Mari regalano in un sol colpo ai marinai.

A sua volta l’autore ci regala un lavoro prodigioso sulla lingua italiana, proiettandoci al tempo dei galeoni spagnoli, dimostrando un’assoluta padronanza del lessico marinaresco e mercantile, impreziosendo le sue pagine con un seducente flusso nomenclatorio, dando vigore e realismo alla vita di bordo. Mari possiede un’inventiva lessicale fuori dal comune, che trova il suo culmine negli eccessi di verbalismo che il capitano dedica alla sua gamba marcescente.

Decisiva la scelta di escludere i due protagonisti del romanzo, Torquemada e il suo secondo Menzio, assieme al cartografo Torriani, dall’incontro con i pesci affabulatori. Il primo è il prototipo dell’intellettuale affetto da cerebralismo. La gamba in cancrena è solo una scusa. Ad immobilizzarlo nel suo letto sono le speculazioni in eccesso, che spesso trovano sfogo in fantasticherie su come liberarsi dell’arto malato. In realtà Torquemade riceve la visita di un pesce magico. Ne subisce il fascino, cerca di evitargli la morte per asfissia, ma forse è proprio il suo solipsismo, il suo eccesso di pensieri ad ammalare mortalmente l’ospite acquatico, che al contrario dei suoi simili, non riesce più ad abbandonare la nave.

Durante il sonno, dal suo splendido esemplare Torquemada ottiene pochi impulsi disordinati, schegge di insegnamenti retorici, parole di cui ignorava il significato se non l’esistenza, e nulla più, come se le sue elucubrazioni schermassero il pensiero telepatico dell’essere acquatico.

Dall’altra parte c’è Menzio, prototipo dell’uomo dal cuore indurito e dall‘immaginazione asfittica per troppo cinismo e troppa avidità. L’unica fantasia che quest’uomo riesce ad ammettere, a forza di equivoci dettati dalla sua ignoranza, è quella di un tesoro inesistente nascosto a bordo, che lo spinge ad uccidere senza scrupoli i pochi marinai rimasti in vita, perché gli altri si lasciano morire sfiniti ma felici, ebbri delle storie e della crescita spirituale ricevuta in dono dai pesci fantastici.

La stiva e l'abisso
Michele Mari – Fonte: centropens.eu

In mezzo c’è Torriani, rinchiuso inutilmente nella sua cabina a ritrovar la rotta, anche lui in preda a intellettualismi che trovano sfogo in scritti deliranti. Ma al contrario di Torquemada, Torriani trova la forza di reagire. Costruisce la Batispecola, una sorta di navicella marina, e si immerge nelle profondità oceaniche per svelare il mistero che avvolge la nave, facendo perdere per sempre le sue tracce.

Lo scontro verbale tra Torquemada e Menzio procede sempre più serrato, regalando momenti inaspettati di ilarità. Tra le qualità di Mari scrittore ci sono anche l’umorismo e l’ironia, che si mescolano alla capacità di inventare e gestire registri assai distanti. Il rigore morale e il linguaggio forbito di Torquemada duellano con la personalità cialtrona e la parlata sgangherata di Menzio, che s’impadronisce delle citazioni e dei paroloni del capitano deformando, deturpando, equivocando il significato con conseguenze tragicomiche, che alla fine lo condanneranno alla più cupa solitudine, il destino di chi non crede nella forza salvifica delle storie.

Testo di Michele Lamonaca

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