Michelangelo Antonioni, il pittore che reinventò il Cinema

Michelangelo Antonioni

Soluzioni tecniche ardite, avveniristiche, al servizio della sua poetica straniante. Uno stile
rivoluzionario perché consacra sulla pellicola la parte stagnante dell’esistenza
contemporanea, quella che ha come unico e vero protagonista un silenzio profondo e
angosciante.

Per Michelangelo Antonioni il cinema non è solo spettacolo. Può essere anche narrativa.
Esiste quindi la possibilità di dilungarsi per raccontare la psicologia dei protagonisti. Tra i
pieni e i vuoti dell’arte filmica, ovvero dialoghi e silenzi, sceglie di dare voce a questi ultimi,
perché da loro è necessario partire per parlare davvero della realtà complessa che è la modernità.

I momenti stagnanti

La cinepresa fissa la scena, gli attori non si guardano quando parlano. Il protagonista
silenzioso, rivolge lo sguardo verso un punto al di là dell’inquadratura, compiendo gesti in
apparenza privi di importanza, magari bizzarri, senza senso. L’obiettivo insiste a lungo
su questa scena, e il suo significato si sottrae alla normale comprensione, secondo dopo secondo.
Antonioni ci ipnotizza, ci intrappola nei suoi “momenti stagnanti”, come li definisce lui
stesso. Espressioni passionali e concrete del disagio interiore, più di qualunque parola.
Così sconvolge il concetto di senso utilizzato nel cinema prima del suo arrivo.

Le sue immagini sono molto chiare, evidenti. Ma il senso di questa evidenza è problematica, e lo
diventa sempre di più, man mano che il film procede verso un’apertura progressiva, per
concludersi con un finale più che mai aperto. L’esatto contrario della narrazione
cinematografica tradizionale, che approda sempre ad un finale chiuso, comprensibile,
risolutore. Antonioni vuole cogliere aspetti della realtà che gli altri non vedono. Rinnova la
drammaturgia cinematografica, insinuando un forte senso di smarrimento nel pubblico e
nella critica, che ancora oggi accolgono le sue opere in maniera contrastante.

Michelangelo Antonioni - La Notte
La notte

Ma lui ha sempre seguito il suo istinto, e la sua potente capacità di analisi. Lo fa fin
dall’inizio. Il regista ferrarese, stufo del cinema canonico, si siede dietro la macchina da
presa con la convinzione che la vita abbia ritmi differenti da quelli a cui la narrativa
cinematografica aveva abituato il pubblico fino a quel momento. Ritmi stagnanti, per l’appunto.
Partoriti dall’insensatezza della società votata al progresso tecnologico, a cui facevano e
fanno da corollario il capitalismo predatorio e il consumismo esasperato. Antonioni parte dalla necessità di osservare queste epifanie del disagio interiore per parlare davvero della realtà. Si occupa della condizione umana come i grandi scrittori del suo tempo, mettendo a punto tecniche
stilistiche di impressionante vitalità espressiva.

Incomunicabilità e alienazione

La sua carriera da regista segue quella di critico cinematografico. Nel 1943 trova il
Neorealismo, in risposta al bisogno fisiologico di parlare degli esclusi, dei poveri, di chi era
stato bandito dal fascismo, che impose il rassicurante regime culturale dei “Telefoni
bianchi”. Comincia a girare Gente del Po, documentario che porterà a termine nel 1947.
Ma non gli basta. Lascia ciò che ha trovato, per seguire un’altra strada, quella del
“Neorealismo interiore”.

L’analisi del rapporto interpersonale, guardando soprattutto alla coppia, è il tema dominante dei suoi primi cinque film, girati tra il 1950 e il 1957: Cronaca di un amore, I vinti, La signora senza camelie, Le Amiche e Il Grido. Michelangelo Antonioni torna ad interessarsi all’uomo. Per la sua indagine diventa inevitabile occuparsi del rapporto che questi ha con l’ambiente. Inquadra la borghesia italiana, ne scruta il lato oscuro, quello afflitto da sentimenti malati. Ma il ferrarese ha l’animo del pioniere, ha bisogno di esplorare regioni sconosciute e insediarsi in esse.

Con la tetralogia esistenzialedell’incomunicabilità la sua indagine si allarga al punto di vista sociologico. Dal 1960 al 1964 con L’avventura, La notte, L’eclisse e Il deserto rosso, l‘occhio della sua cinepresa è puntato sulla difficoltà esistenziale. Il mondo dei vecchi ideali crolla, all’orizzonte ce n’è un altro che mette paura, l’animo soffre di una inspiegabile insoddisfazione. Parte ancora dalla crisi di coppia per arrivare all’alienazione nella società industriale degli anni ’60.

Michelangelo Antonioni
Il deserto rosso

L’esperienza all’estero

La voglia di Antonioni di indagare l’animo umano non si placa. Di qui nasce l’esperienza dei
tre film girati all’estero e in lingua inglese, nell’arco di tempo che va dal 1966 al 1975: Blow- Up, Zabriskie Point e Professione: reporter. I temi sono gli stessi, ma è come se volesse
mettere alla prova la loro tenuta in nuovi e lontani scenari della modernizzazione. Si confronta con le mode e le contestazioni giovanili, con la loro musica, per far vivere al suo sguardo un’avventura nella civiltà contemporanea, dove il pensiero è in crisi, dove l’apparenza è confusa con la realtà, e la finzione viene accettata nella speranza di avvicinare il più possibile la verità.

Michelangelo Antonioni
Blow up

La missione di Michelangelo Antonioni è quella di cogliere aspetti della realtà che gli altri non vedono. Un obiettivo che non avrebbe raggiunto senza un’altra sua grande qualità, che fa di lui uno dei più grandi artisti di sempre. Istintivamente è un pittore, il più pittorico dei registi italiani.
Dipinge sentimenti, paesaggi, cose, modificando la natura, alterando la scena per
esprimere stati d’animo e dare suggestione. Lo fa ricolorando il mondo reale. Vuole
catturare così lo spirito del tempo, anni prima che nascessero la postproduzione e la
correzione colore in digitale. Per lui un film non è una sequenza lineare di scene, ma
quadri in successione. Ed è grazie all’enigmatica inafferrabilità delle immagini, che il
senso delle sue opere si apre fino quasi a disperdersi, ottenendo la precisa
rappresentazione dell’insensatezza che gonfia i cuori degli uomini.

La Pittura nel Cinema di Michelangelo Antonioni

Antonioni costruisce i suoi film tenendo a mente i lavori dei suoi pittori preferiti, o meglio
accompagnandosi con i libri a loro dedicati. Parliamo di Rothko, Schifano, Mondrian,
Morandi, Pollock, Tapies, Dechirico e altri ancora. I colori della natura sono i colori
dell’anima. In Deserto Rosso cosparge le strade, gli oggetti e le persone di grigio, di giallo
e verde acido, perché sono le fosche tonalità che si porta dentro la protagonista, un
nevrotica tormentata e depressa. In Blow up interviene sul prato già verde, dove gira una
delle scene fondamentali del film, dipingendolo con la stessa tinta, per renderlo più vivo, saturo.
Esalta il grigio degli alberi. Interviene sulle strade di Londra in cui avvengono le riprese con i
rossi, il bianco e il nero, per ottenere una realtà ad alta definizione. Iperrealistica come
quella ricercata e vissuta dal protagonista, un fotografo di moda.

Blow up

Tirare fuori la soluzione tecnica, che deve essere anche poetica, è una sofferenza, spiega
lo stesso Antonioni. Ma questo non lo spaventa, anzi lo stimola. E’ suo Il Mistero di
Oberwald, primo film realizzato in elettronico con sistema Tv. Tecnologia che gli
consente di manipolare i colori con più facilità, per utilizzarli ancor più efficacemente come
riflessi della psiche. Ennesima tappa della sua impareggiabile carriera artistica.

Perché Michelangelo Antonioni ha rivoluzionato la drammaturgia filmica, descrivendo con l’occhio della telecamera ciò che gli altri non riuscivano a vedere. Per farlo si è servito di
un’impressionante cultura grafica e pittorica. Ecco perché oggi, a distanza di tempo, ci
mostra ancora con grande precisione dove ci troviamo.

Testo di Michele Lamonaca

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