Parasite e la necessità di abbattere la Macchina

Il film del regista sudcoreano Bong Joon-ho va oltre la lotta di classe. La questione davvero in ballo è come liberarsi dalla morsa asfissiante della Macchina che opprime poveri e ricchi. Come sbarazzarsi della società deforme, che ha introiettato le regole della produzione industriale trasformando gli individui in cronometristi e capisquadra di se stessi, riducendoli così a una schiavitù invisibile.

L’abilità tecnica di Bong e dei suoi collaboratori, dal production designer Lee Ha Jun al direttore della fotografia Hong Kyung-pyo, a prima vista rende Parasite una perfetta e simmetrica messa in scena del conflitto tra la povera famiglia Kim e la ricca famiglia Park. La differenza tra gli opposti viene resa a livello visivo in modo magistrale a partire dalle rispettive abitazioni. Da una parte il fetido seminterrato invaso dagli scarafaggi, e dall’altra la magnifica villa, progettata da un archistar.

Parasite - Fonte: mymovies.it
Parasite – Fonte: mymovies.it

La cura maniacale della messa in scena fa il paio con l’elegante significazione dei movimenti di macchina. La disposizione nello spazio dei corpi e i continui sali e scendi della cinepresa raccontano le variazioni nei rapporti di forza non solo tra i Park e i Kim ma anche all’interno di questi ultimi. Tra il mondo di sotto, che ha come orizzonte un vicolo stretto e chiuso nella morsa di palazzi fatiscenti, e il mondo di sopra, immerso in un magnifico prato inglese perimetrato da alberi imponenti, si snoda una serie infinita di scale che fa le veci dell‘ascensore sociale sul quale i Kim riescono a salire vittoriosamente per mezzo di furbizie, grande intelletto e straordinario talento recitativo. Con questo temibile armamentario riescono ad infiltrarsi uno alla volta nella famiglia Park, nascondendo la loro consanguineità.

Ki-woo diventa l’insegnante d’inglese di Da-hye, sua sorella Ki-jung viene assunta come insegnante di arte terapia del piccolo Da-Song. Sbarazzarsi del giovane autista al soldo del signor Park, per poi rimpiazzarlo con il capofamiglia Ki-taek, è un gioco da ragazzi. Per far licenziare la governante serve un piano più elaborato. La scoperta del suo punto debole, l’allergia alle pesche, e una partitura scritta a tavolino, che Ki-taek recita alla perfezione, facendo credere alla signora Park che la governante è malata di tubercolosi. Il suo licenziamento senza alcun riferimento alla malattia e l’assunzione della signora Kim, Chung-sook, chiudono il cerchio diabolico stretto attorno ai ricchi signori.

Ed eccola, questa famiglia di truffatori geniali, attori rifiniti, riunita in casa Park fingendo di non conoscersi, indaffarati nello svolgere le proprie mansioni, per altro con massima professionalità, alla quale derogano con piccole effusioni nascoste.

Dalla loro parte gioca un ruolo importante l’ingenuità dei padroni di casa. Il signor Park è il ceo di un’azienda di high-tech con la puzza sotto il naso. Proprio come sua moglie, stereotipo femminile dell’alta società: padrona amorevole di tre cagnolini, incapace nei lavori domestici e iperprotettiva verso i suo i figli. I signori Park sono schiavi delle apparenze, accecati dall’irrealtà del denaro e del benessere. Entrambi esigono dai loro dipendenti che non venga mai superato il limite, oltre il quale verrebbe meno la condizione di superiorità che sancisce l’appartenenza ad una classe sociale elevata.

Tempi Moderni – Charlie Chaplin

I Kim ne approfittano astutamente e con successo, ma quando tutto sembra girare per il meglio, sopraggiunge inatteso e violento come un temporale estivo l’evento che scombinerà i loro piani. Da anni l’ex governante nasconde e nutre il suo povero marito nel bunker segreto della villa per salvarlo dai creditori. Una rivelazione che trasforma la commedia in una tragedia grottesca, impietosa nei confronti di tutti i personaggi.

La morte dell’ex governante, provocata da Chung-sook, scatena la folle rabbia del marito nel bel mezzo della festa di compleanno organizzata per Da-song. Impazzito dal dolore, l’uomo ferisce a morte Ki-jung, meritandosi ugual sorte per mano di Chung-sook. Ki-taek perde la testa perché in un frangente così drammatico il signor Park riesce a dare prova di disumano classismo. Il padrone di casa cade senza vita sul suo magnifico prato inglese, con un coltello nel petto. Così, al fuggitivo Ki-taek, ricercato dalla polizia, non resta che rintanarsi a tempo indeterminato nel bunker.

A questo punto la morale della storia sembra servita su un piatto d’argento. L’eldorado della ricchezza fa perdere il lume della ragione a chiunque, senza distinzioni. Nel seminterrato i Kim sognano una vita da nababbi e perciò non si fanno scrupoli nel raggirare le inconsapevoli prede. I Park, che da nababbi ci vivono già, sono bambini viziati che hanno bisogno di servi per scansare i lavori umili e pesanti, per soddisfare ogni minimo capriccio. Il finale non da speranza. Per quanto i poveri si affannino nel cambiare la loro condizione, finiranno con l’ingaggiare una lotta fratricida per la sopravvivenza, ottenendo al massimo inutili rivalse dai tragici risvolti. Il mondo è ingiusto e nessuno può cambiarlo.

Ma questa è una lettura parziale perché Parasite dice molto di più. Fin da subito, nella perfezione narrativa del film, c’è qualcosa che non torna. Tra i personaggi, ce n’è uno che combatte questo ordine prestabilito senza darlo a vedere. Si tratta di Ki-teak, uomo garbato e indolente, animato in ogni sua azione da un profondo quanto invisibile senso di ribellione contro il ruolo assegnatogli dalla società sudcoreana, che nulla ha da invidiare all’Occidente nell’inseguire a testa bassa il paradigma statunitense.

Una ribellione passiva, per la quale Bong escogita una sistema raffinato, fatto di segni appena percettibili, piccoli come briciole di pane, da seguire, raccogliere e ricompattare lungo il sentiero tracciato dalla storia, in modo da arrivare finalmente a comprendere chi è davvero Ki-teak.

Parasite - Fonte: ilpost.it
Parasite – Fonte: ilpost.it

La differenza tra lui e il resto della sua famiglia si nasconde nei dettagli, a cominciare dalla sequenza iniziale dove, a saper guardare, è già tutto delineato. Bong introduce subito l’uso metaforico assegnato al movimento verticale della cinepresa, che posizionata all’interno del seminterrato, guarda attraverso il finestrone posto al livello della strada.

La vita dei Kim si svolge sotto questa immaginaria linea di galleggiamento, come fossero passeggeri di ultima classe a cui spetta la stiva della nave. Perciò la cinepresa deve scendere ancora più giù per inseguire Ki-woo e Ki-jung, intenti a cercare una linea wifi senza chiave di protezione. La madre è seduta per terra che lavora all’uncinetto; parla della questione con qualcuno, al momento invisibile, perché posto ancora più in basso. Chung-sook sferra un calcio a qualcosa ed ecco emergere Ki-teak, destato in malomodo dal suo ozioso sonnellino, a cui la moglie chiede:“E tu, che piano hai?”.

Senza che ce ne rendessimo conto, Bong ha introdotto i tratti salienti della famiglia Kim e gli elementi narrativi che torneranno ciclicamente in tutta la storia, compreso il tormentone del “piano”, concetto e proposito al quale la famiglia Kim si aggrappa inutilmente nella speranza di sfuggire all suo destino.

Ki-woo e Ki-jung, mossi dall’energia della loro giovane età e dall’inesperienza, aspirano a qualcosa di meglio e si attivano per conquistarsela. La madre Chung-sook è un personaggio intermedio, sospeso tra inerzia e volontà. Ki-taek, pur non rinunciando ad incitare i suoi figli, si rivela un fondamentalista dell’inoperosità. Una convinzione che evidentemente nasce dal suo vissuto, sul quale riceviamo poche ma significative informazioni. Ki-teak ha cambiato tanti lavori, ha avviato parecchie attività commerciali, ma gli è andata sempre male.

Trovata un linea wi-fi senza protezione, la famiglia si riunisce in cucina per piegare i cartoni di “Pizza generazion”, lavoretto utile a sbarcare il lunario. Ma alla fine 1/4 dei cartoni non è piegato bene e 1/4 della paga deve essere decurtata. L’errore è senza dubbio di Ki-taek. Lui è l’unico a non protestare con la responsabile aziendale. I suoi familiari salgono in strada a chiedere spiegazioni mentre lui resta a guardare la scena dal finestrone, indifferente, e ancora una volta più in basso di tutti.

Ki-taek è la voce fuori dal coro familiare. É l’unico a commettere errori nell’esecuzione del “piano” che porterà i Kim ad infiltrarsi nella famiglia dei ricchi. Mentre riaccompagna a casa il signor Park, lo lavora ai fianchi per convincerlo a contattare l’inesistente agenzia di servizi “The Circle”, che saprà trovare la governante giusta per un cliente così importante. La storia, scritta a tavolino con il resto dei Kim, suona convincente, ma Ki-teak perde lucidità e si lascia sfuggire un’imprecazione, quando un tir in sorpasso rischia di tagliargli la strada. Il signor Park accoglie quella caduta di stile con un’occhiataccia.

Ki-teak potrebbe finirla lì. Il pesce ha abboccato. Il signor Park ha preso il bigliettino da visita della fantomatica agenzia e ha accolto positivamente le referenze fornitegli dal suo autista. Invece Ki-teak si fa prendere da un’inutile e apprensiva pignoleria. Si volta ancora una volta per ricordare al signor Park che il numero telefonico da chiamare, che è poi quello di Ki-jung, è stampato sul retro del bigliettino. Ma in questo modo perde d’occhio la strada e si becca un rimprovero.

Parasite - Fonte: it.wikipedia.org
Parasite – Fonte: it.wikipedia.org

Quando i padroni di casa vanno in campeggio, i Kim si impossessano della villa e organizzano una cena che consacra l’avvenuta conquista di uno status sociale ben retribuito. Ormai sbronzi, fantasticano a briglie sciolte sul loro avvenire, e Ki-teak si lascia andare ad un intervento chiaramente fuori luogo se rapportato alle aspettative dei suoi congiunti.

“L’autista prima di me… Ora lavora da qualche altra parte no?”, si preoccupa Ki-teak, provocando la reazione seccata di sua figlia Ki-Jung. “Al diavolo cazzo! Noi siamo quelli che hanno bisogno di aiuto! Preoccupati per noi, ok?! Concentrati solo su di noi! Su di noi! Non sull’autista Yoon, su di me!”.

Il primo vero disvelamento delle sue convinzioni arriva dopo che un temporale ha allagato il seminterrato, costringendolo assieme ai figli a riparare in un palazzetto, assieme ad altre migliaia di sfollati provenienti dalla parte bassa e quindi povera della città, dove l’acqua piovuta dal cielo non è una benedizione che ripulisce l’aria dallo smog, come osserva allegramente la signora Park il giorno dopo, bensì una catastrofe. “Sai che tipo di piano non fallisce mai?” – spiega Ki-taek a Kiwoo. “Nessun piano…senza un piano nulla può andare storto. E se qualcosa gira fuori controllo, non importa”. L’uomo dichiara finalmente la propria estraneità rispetto alla convinzione massificata che l’esistenza debba essere pianificata come ci si fa nell’industria per il ciclo produttivo.

Escher – Fonte: visitlisboa.com

Si giunge così alla parte finale del film che mette a confronto padre e figlio, i due veri opposti della storia. Bong sdoppia la figura dell’inetto, che ha come unica colpa quello d’essere nato nella parte sbagliata della città. Nella scena del palazzetto, quando Ki-taek confuta il concetto di “piano”, Ki-woo stringe a se la roccia portafortuna regalatagli all’inizio del film dall’amico Min, che avrebbe dovuto portare tanti soldi e dalla quale, per sua stessa ammissione, non riesce a liberarsi, come sopraffatto da un’attrazione fatale. Ki-woo, schiavo del sogno (americano), è condannato a rincorrere una felicità effimera. A desiderare ciò che non riuscirà mai ad ottenere e ciò che non riuscirà mai a fare: guadagnare tanti soldi, diventare un uomo ricco, presentarsi all’agente immobiliare per acquistare la villa e liberare finalmente suo padre.

Invece, lì sotto nel bunker, Ki-taek si è affrancato completamente dalla società del profitto, dalla cultura del denaro per la quale l’inoperosità e l’improduttività sono considerate una colpa. L’accostamento della sua immagine a quella dello scarafaggio, suggerita in più scene, giunge finalmente a compimento. Nel suo rifugio usa una lampada e l’alfabeto morse per rassicurare Ki-Woo: “Sto bene, qui”. Nel bunker può finalmente esistere “senza lavorare mai”. Per Ki-taek l’unico modo di sfuggire al regime bimaniaco del produci e consuma è quello di vivere da parassita, ben nascosto, sfruttando la ricchezza di chi ne possiede in eccesso. Meglio scarafaggio, meglio parassita, che ingranaggio della Macchina.

E giungiamo così al vero problema affrontato da Parasite: in che modo ci si può liberare della prigione mentale costruita nella nostra testa da un sistema propagandato come il migliore possibile? Nel finale fiabesco, il film ci offre una risposta paradossale.
Ki-taek, non potendo abbattere il sistema da solo, decide di sfuggirgli preferendo una prigione materiale a quella mentale. Una provocazione bella e buona, un piano inattuabile nella realtà. Che però ci invita a trovare una risposta collettiva, perchè il problema affligge tutti noi: poveri e ricchi.

Testo di Michele Lamonaca

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