D.F. Wallace, una cosa divertente che non farò mai più

Il viaggio in crociera rimane uno dei sogni più gettonati tra quelli inseriti nel catalogo dei divertimenti di massa. La crociera infervora la fantasia in maniera trasversale, annullando le distanze tra le principali categorie bersagliate dal marketing. Giovani e anziani, uomini e donne, single e coppie, chiunque ambisce a una settimana senza doveri e obblighi.

Il sogno di salire a bordo e non preoccuparsi più di nulla, nell’immaginario collettivo, trasforma la nave in un grembo materno nel quale lasciarsi cullare dalle onde del mare e dal dolce far niente. Il desiderio di un distacco forzato e immediato dalla ripetitività del quotidiano, sostituita istantaneamente dalle cure amorevoli dell’equipaggio, assieme a cibo abbondante e di prima qualità, escursioni organizzate e ogni genere d’intrattenimento, possiede un fascino incurabile.

Il reportage di David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più, offre l’opportunità di vivere in forma letteraria il non plus ultra dei viaggi organizzati per mare: una “Crociera Extralusso 7NC”, prevista dal catalogo di tutte le maggiori compagnie crocieristiche.

Nel 1995 la prestigiosa rivista Harper’s commissiona al compianto scrittore americano la realizzazione di un articolo, dietro un compenso di tremila dollari. Così Wallace s’imbarca a bordo della nave Zenith, da lui stesso ribattezzata Nadir, di proprietà della compagnia Celebrity Crociere. Foster Wallace racconta in prima persona, con il suo talento smisurato, la crociera “7 Notti ai Caraibi”, in programma dall’11 al 18 marzo di quello stesso anno, a bordo di un gigante da 42 mila tonnellate, alto dodici ponti, in compagnia di oltre milletrecento passeggeri.

L’autore annota cataloga e descrive con l’infaticabile maniacalità iperrealista che contraddistingue le sue opere, i dettagli di un’esperienza ludica preconfezionata.  In una settimana riempie tre taccuini. Poi, revisione dopo revisione, va ben oltre il semplice articolo, realizzando un reportage di centocinquanta pagine, che merita la pubblicazione a parte. Una rielaborazione tridimensionale e disincantata dei testi pubblicitari e delle immagini stampate sul materiale informativo delle compagnie navali, in cui la mente ingegneristica di D.F. Wallace si diverte con estrema ironia a raccontare un prodotto di consumo apparentemente inappuntabile. Il Guardian lo descrive come «un libro che non si riesce a smettere di leggere neanche mentre ci si lava i denti». Ed è vero, perché l’autore va oltre le apparenze, riuscendo a cogliere le stramberie di un prodotto patinato, anabolizzato dalla mission dell’extralusso.

Una cosa divertente che non farò mai più
Una cosa divertente che non farò mai più (Copertina) – Fonte: minimumfax.com

L’americanità in crociera

Armato di carta e penna, Wallace comincia a fotografare l’umanità in viaggio di piacere sulla Nadir ancor prima dell’imbarco. Guardando i futuri passeggeri, seduti ad aspettare sotto la calura della Florida presso il porto turistico di Fort Lauderdale, David si accorge che suo malgrado a breve sarà protagonista di una rappresentazione tragicomica dell’esistenza umana.

Con la macchina fotografica appesa al collo e gli occhiali da sole fosforescenti come i cordini a cui sono assicurati, i passeggeri della Nadir, americani benestanti, sono l’esempio fulgente dell’omologazione culturale prodotta dal totalitarismo consumista.  Un universo variopinto di «ciabatte infradito, completi fucsia, giacche rosa mestruo, mocassini bianchi senza calzini». Le persone più strane si distinguono per la loro eccentrica staticità come il ragazzino di tredici anni che indossa un parrucchino, e che ogni giorno va sul ponte a leggere i tascabili di fantascienza di Josè Philip Farmer «con addosso il giubbotto salvagente arancione».

Wallace racconta scene di massa nelle quali «l’americanità» ostentata dai suoi connazionali lo costringe a dichiarare apertamente il proprio «autodisgusto». Da semi-agorafobico restio agli spazi aperti, lo scrittore li osserva dalla balaustra del ponte, in fila come caproni, pronti a partire verso l’escursione organizzata «in porti devastati dalla miseria», mentre «ondeggiano nei loro sandali costosi» e mercanteggiano con «indigeni malnutriti». Uno spettacolo kitsch, tendente al trash, ancor più orribile per la loro totale indifferenza verso il resto del mondo.

La nave lambisce terre dove la gente vive in povertà, mentre i suoi passeggeri giacciono sui ponti dedicati alla tintarella, immersi nell’odore di olio abbronzante spalmato su tonnellate di carne umana abbrustolita dal sole, e danzano a centinaia nei saloni delle feste, eseguendo all’unisono i passi predefiniti di Electric Slide. Stringendo il campo, Wallace racconta dei suoi compagni al Tavolo 64, nel ristorante a cinque stelle dove le donne, ciarliere e pronte allo scherzo, esaminano i particolari di ogni portata per giungere a recensioni definitive, mentre gli uomini preferiscono il silenzio, interrotto solo da discorsi sul golf, gli affari e le scappatoie legali per far passare roba alla dogana. Il trentatreenne D.F. Wallace condivide il viaggio con una ciurma di egoisti a cui deve in buona parte la promessa di non andare mai più in crociera.

Una cosa divertente che non farò mai più
Fort Lauderdale

La grande illusione dell’extralusso

Annotando i suoi taccuini, Foster Wallace si accorge che la crociera extralusso altro non è che una delle massime espressioni del consumismo postmoderno. I popoli che hanno alle spalle una storia consumistica più matura esigono elevati livelli di servizio e personalizzazione dell’offerta. Tra questi, gli americani occupano il primo posto, e quelli che s’imbarcano per una crociera extralusso ne rappresentano l’elite.

La brochure della Celebrity promette esplicitamente di “viziare” i clienti, utilizzando tale verbo con insistenza in tutte le sue coniugazioni, così da garantire «l’appagamento del sé che soltanto VUOLE». La grande illusione creata dalla brochure è che sia possibile mantenere tale promessa, la quale, in fin dei conti, nasconde una promessa ancor più allettante: quella di regredire fino allo stadio infantile.

Perciò Foster Wallace non esita nel criticare l’uso scorretto del testo realizzato dal celebre scrittore Frank Conroy, il quale racconta la sua esperienza di viaggio. La compagnia pubblica l’articolo nella brochure sotto forma d’inserto, facendolo passare per una «riflessione autonoma», quando è lo stesso Conroy – contattato da David – a confessare la «marchetta» a pagamento.

L’articolo è una pubblicità sotto mentite spoglie che simula «finto spirito obiettivo» a cui il lettore si rapporta con «un livello di credulità e apertura parecchio alta rispetto ad un messaggio esplicitamente pubblicitario». Il risultato – osserva David – è «l’innalzamento del livello di guardia difronte alla vera buona fede, alla vera arte». Così alla fine ci si sente «confusi, soli, impotenti, arrabbiati e impauriti, insomma, disperati».

D.F. Wallace allarga il discorso al «sorriso professionale» che si accende sul volto del personale di bordo come un interruttore, con l’unico scopo di ottenere risultati che fanno comodo a chi sorride. Pur sapendo che si tratta di una finzione, sopraffatti dalla bramosia d’essere viziati, i clienti esigono «mentalmente» il sorriso professionale e quindi «l’atteggiamento professionale», al punto che la loro assenza accresce il senso di disperazione.

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Nave da crociera extralusso – Fonte: mtwaddingtons.com

Viziare come nevrosi: il personale di bordo

Il ragionamento sulla brochure della Celebrity e sul sorriso professionale fanno da prologo ad una delle caratteristiche più affascinanti del reportage: la sincerità con la quale D.F. Wallace descrive le conseguenze fisiche ed emotive della crociera extralusso sulla sua persona.

Le compagnie vogliono realizzare l’impensabile:«una miscela di relax ed eccitazione, di appagamento senza stress e turismo frenetico, quella fusione di servilismo e condiscendenza» che viene propagandata con tutte le forme del verbo viziare.

D.F. Wallace vive sulla sua pelle gli effetti di questa mission aziendale e li annota assieme agli aspetti grotteschi che essa produce nella comunità accorpata sulla nave da crociera. I dirigenti delle mega-compagnie interiorizzano la volontà aziendalistica di viziare i clienti facendone una vera e propria nevrosi. I prima a farne le spese sono i membri dell’equipaggio. Oltre a lavorare con il sorriso professionale stampato sul volto, sono costretti a simulare una condiscendenza che all’atto pratico è puro servilismo.

Prelevando il suo bagaglio dal mucchio che sta per essere distribuito nelle cabine, Wallace fa scoppiare un caso diplomatico. Il facchino, la cui testa è pronta per essere tagliata dai superiori, viene messo difronte al paradosso del viziatore:«il cliente ha sempre ragione, contro, il cliente non deve mai portare i suoi bagagli».

Al buffet del Windsurf Cafè, squadre di camerieri, maitre, supervisori, sommelier e cuochi osservano i clienti per intervenire con prontezza. Per contratto è loro compito impedire che il cliente faccia da solo ciò che un membro del personale può fare al suo posto.

L’atteggiamento servile del personale di bordo si manifesta in ogni zona della nave, durante ogni attività. Ma secondo D.F. Wallace, il paradigma della volontà di viziare il cliente assume aspetti e dimensioni estreme, nevrotiche, con la pulizia in cabina.

La responsabile, Petra, si materializza come un ectoplasma non appena Foster Wallace si allontana per più di mezz’ora. Al suo ritorno è tutto sterilizzato, pulito e spolverato. Gli asciugamani sono ripiegati con cura, il bagno splende di luce propria, sulla federa fresca e profumata del cuscino risplende un nuovo cioccolatino alla menta.

Foster Wallace, ossessionato da questa pulizia «invisibile e misteriosa» adotta misure da controspionaggio per comprenderne i meccanismi. Cerca telecamere e microfoni nascosti in cabina. Ipotizza l’esistenza di un membro dell’equipaggio assegnato ad ogni ospite, con l’incarico di spiarne i movimenti. Compie azioni imprevedibili, di depistaggio, per far saltare il meccanismo, arrivando a suscitare sguardi impauriti negli altri ospiti del suo corridoio.

Alla fine, pur non sciogliendo quel mistero, ragiona su una questione molto più importante: la solerzia di Petra non è legata alla persona. Non dipende da un sentimento di affetto nei confronti del cliente, ma è solo la risposta a un ordine preciso. Il passeggero è come l’ospite di una padrona di casa ossessionata dalle pulizie, che cancella ogni traccia dell’estraneo obbedendo agli imperativi della sua nevrosi. Lei non vede l’ora che l’ospite si tolga di torno perché è solo un fastidio. «Sulla nave l’aura psicologica è la stessa» e quindi la partenza dei clienti viene salutata con lo stesso sollievo.

Una cosa divertente che non farò mai più
David Foster Wallace

Viziare come nevrosi: il cliente

Anche Foster Wallace, per colpa della sua parte «proto-americana bramosa e sensibile al piacere passivo di essere viziati», sviluppa un’ipersensibilità all’imperfezione e alla mancata gratificazione.

Comincia a notare con crescente fastidio piccoli difetti nel servizio extralusso. Il cameriere del tavolo 64, addetto a ripulire la tovaglia dalle briciole, non riesce a toglierle davvero tutte. Gli angoli del letto non sono tutti esattamente uguali in ampiezza. La crepa nell’angolo superiore destro della scrivania è insopportabile. La lentezza dell’ascensore a prua è un oltraggio, come l’assenza di manubri da 10 kg nell’Olympic Health Club.

La lista delle insoddisfazioni e delle rimostranze, inizialmente insignificanti, s’ingrossa a dismisura generando disperazione. Foster Wallace si accorge che la possibilità di «una gratificazione e di un accudimento straordinari, accrescono la soglia di soddisfazione della sua parte infantile». Si sente risucchiato dal desidero di sentirsi viziato, con la stessa forza paurosa del water ad alto tiraggio della sua cabina.

La tentazione di comporre il numero 72 della linea interna, per attivare il servizio in cabina h24, diventa irresistibile e lo trasforma in un mangiatore seriale. E dopo quindici minuti d’attesa s’inalbera perché il ragazzo addetto al servizio non si è fatto ancora vivo.

Foster Wallace sviluppa la dipendenza da servizio perfetto. Lo schieramento di finocchietti sottaceto bagna troppo la crosta del pane. La nave da crociera Dreamword, di una compagnia concorrente, ha gli ombrelloni color pesca come le finiture della nave. Sulla Nadir gli ombrelloni sono arancioni chiaro, mentre i colori istituzionali sono il bianco e blu: «sembrano una cosa improvvisata e misera».

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Notte in crociera – Fonte: blog.100days.it

Decadenza e morte in crociera

Nel reportage colpisce l’uso di un parola così forte come «disperazione». Lo stesso David Foster Wallace s’interroga sull’irrimediabile necessità di ricorrere ad un significato così sgradevole; stridente nell’economia di un testo dedicato ad un’esperienza che promette divertimento e tranquillità. David si osserva, si ascolta e si confida con il lettore. «Mi son sentito depresso come non mi sentivo dalla pubertà e ho riempito tre taccuini per capire se era un Problema Mio o un Problema Loro».

Una prima risposta ai suoi interrogativi arriva di notte, quando cessano «il divertimento organizzato, le rassicurazione e il rumore dell’allegria» e prende il sopravvento «qualcosa di insopportabilmente triste». Le luci spente illuminano ciò che è realmente la “Crociera Extralusso 7NC”. Un luna park per uomini e donne ridotti a categorie merceologiche. Un prodotto commerciale confezionato sulla base di una mission aziendale perseguita in maniera nevrotica e gestito parimenti dal personale di bordo, che indossa la maschera della gentilezza e della cortesia in obbedienza alle direttive del datore di lavoro.

Gli americani benestanti in viaggio sulla Nadir sono in fuga dalle «cose sgradevoli». Una messa in scena nella quale vengono coinvolti con abilità «nella costruzione di svariate fantasie di trionfo sulla morte e sulla decadenza». Ma ciò che «la più sfrenata fantasia americana in fatto di vacanze» riesce a nascondere durante il giorno, viene necessariamente a galla di notte, specie se poi tale fantasia si svolge sull’oceano, «gigantesca e primordiale macchina di morte e decadenza», capace di ricordare a chiunque, anche all’uomo più potente e ricco della terra, «quanto si è piccoli e deboli ed egoisti e destinati senza dubbio alla morte».

«Una sensazione insopportabile» che fa breccia nell’animo di David Foster Wallace fino a tramutarsi in un «desiderio di morire»; nella «voglia di buttarsi giù dalla nave», pur di sfuggire al «disarmante senso di piccolezza e futilità» che lo fa sentire «disperato».

La Nadir riproduce in scala il mondo che abitua i suoi passeggeri all’idea d’immortalità, illudendoli con l’abbondanza e il lusso, sbarre di una prigione dorata. Per fortuna esistono ancora la vastità dell’oceano e l’oscurità della notte per recuperare la «coscienza della morte e della decadenza», attributo centrale di quell’umanità smarrita inseguendo sogni di plastica. Allora è meglio restare con i piedi per terra, e ascoltare le parole di D.F. Wallace quando ci dice: la crociera extralusso è «una cosa divertente che non farò mai più».

Testo di Michele Lamonaca

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