Esperimenti sull’umano, il Cinema laboratorio di Lanthimos

Da regista pubblicitario a cineasta meritevole di un posto nell’Olimpo dei grandi autori contemporanei. Il successo di Yorgos Lanthimos è l’applicazione di un’idea semplice e terribile: trasformare gli esseri umani in topi da laboratorio per sottoporli ad esperimenti bizzarri.

Lanthimos, nato nel 1973 a Pangrati, quartiere popoloso di Atene, studia regia in una scuola privata, perché in Grecia non esiste una scuola nazionale dedicata alla settima arte. Dopo avere imparato la tecnica, comincia a guadagnarsi da vivere realizzando spot pubblicitari, ma intanto filma danzatori e attori teatrali, dirige un paio di spettacoli, e impara l’importanza della fisicità.

Yorgos Lanthimos
Yorgos Lanthimos

Il desiderio di girare un lungometraggio è forte, ma deve far fronte alla pochezza dei mezzi. Difficoltà superata brillantemente con una cinepresa 16mm, e soprattutto, con l’aiuto delle persone, degli amici attori, anche loro desiderosi di mettersi alla prova, di sperimentare. Nasce così, nel 2005, l’opera prima di Lanthimos regista.

Kinetta è un film acerbo, ma rivela gran parte delle scelte stilistiche che da lì in poi caratterizzeranno il cinema del regista greco. La storia sfrutta la fisicità dei corpi, perché racconta di tre individui – un poliziotto, un video operatore e una cameriera – a cui il mondo sembra aver asportato la sfera emotiva. I tre resuscitano la loro energia vitale in maniera morbosa, mettendo in scena fatti di cronaca nera, e più precisamente atti di violenza le cui vittime sono le donne.

La cameriera prova la sua parte nelle stanze dell’hotel in cui lavora, buttandosi e rotolandosi per terra, fingendo di divincolarsi dalla presa di mani invisibili, difendendosi da aggressioni immaginarie e simulando la morte iniqua. Il poliziotto riassume e detta ogni volta, con maniacale precisione e dovizia di particolari, ogni singolo movimento, prima di interpretare il ruolo dell’aggressore omicida. Il video operatore riprende e fotografa ogni attimo, girando attorno ai due attori improvvisati come un avvoltoio.

I dialoghi quasi non esistono, vengono ridotti all’osso per dare la precedenza a una recitazione anti-realistica, stilizzata. Il risultato è un realismo grottesco, in cui non non si sa nulla del passato toccato in sorte ai personaggi e delle motivazioni che li muovono. Il finale è aperto come aperta è la possibilità concessa allo spettatore di interrogarsi e dare una spiegazione a quello che sta vedendo.

Una visione del Cinema che andrà a collimare e a completarsi attraverso la collaborazione con Efthymis Filippou, che di mestiere fa il copywriter, ma che si lascia convincere e coinvolgere da Lanthimos nella scrittura di una nuova sceneggiatura.

Dopo due anni di lavoro intermittente – rubando il tempo alla pubblicità, attività principale di entrambi perché bisogna pur portare il pane a casa – nel 2009 viene alla luce Dogtooth, che rivela al mondo intero il talento visionario e dissacratore di Lanthimos. Quello stesso anno il film si aggiudica il premio della sezione Un Certain Regard al 62º Festival di Cannes. Poi viene candidato come Miglior film in lingua straniera ai premi Oscar del 2011. Il resto è storia recente della cinematografia mondiale. Con il sodale Filippou, Lanthimos realizza un altro film in Grecia, Alps (2011), che gli apre le porte della grande produzione e l’opportunità tanto desiderata di crescere professionalmente, confrontandosi con un mondo nuovo e una lingua straniera come l’inglese.

In Gran Bretagna realizza The Lobster (2015), dirigendo due star come Rachel Weisz e Colin Farrell. Lanthimos richiama l’attore irlandese per il film successivo, Il sacrificio del cervo sacro (2017), girato negli Stati Uniti assieme a Nicole Kidman. Candidature, premi e riconoscimenti si moltiplicano. E il regista greco, trasferitosi ormai stabilmente a Londra, accetta una nuova sfida, questa volta senza Filippou. Un film in costume, La Favorita (2018), ambientato nel XVIII secolo, tratto da una sceneggiatura già esistente di Deborah Davis, che Lanthimos adegua alla sue esigenze autoriali assieme alla stessa Davis e a Tony McNamara.

Oggi Yorgos Lanthimos è uno dei registi più apprezzati a livello mondiale, nonché punta di diamante di quella nuova generazione di cineasti greci denominata “New Weird Vave” (Nuova Onda Stramba) che racconta lo smarrimento contemporaneo degli individui, cercando sistematicamente di spiazzare e disturbare visceralmente lo spettatore.

Filosofia di cui Lanthimos offre una definizione più edulcorata nell’intervista rilasciata tempo fa al Guardian, quando ammette il suo intento «provocatorio» e spiega – parlando al plurale per evocare Filippou, a cui riconosce grandi meriti nella composizione della sua materia filmica – che il loro obiettivo è «provocare pensieri, discussioni, e scuotere le persone affinché inizino a pensare alle cose in un modo diverso». E’ questo l’unico obiettivo politico dell’intellettuale Yorgos Lanthimos, che nelle interviste non si lascia mai andare a una chiara rivendicazione della critica sociale che gli viene costantemente attribuita dai critici cinematografici.

Anzi, se può, smentisce le ipotesi dei giornalisti e del pubblico. Durante la Master Class tenuta nel 2012 in occasione del Goteborg Film Festival, quando gli chiedono se in Grecia hanno interpretato Dogtooth come un’allegoria della dittatura, risponde scherzando che forse questo «è avvenuto in Francia», ma che nel suo paese hanno preso il film per quello che è. E aggiunge: «non abbiamo mai detto che faremo l’allegoria di una dittatura o di un’altra cosa qualsiasi». Ciò che gli interessa è «scherzare con quello che le persone pensano sia la norma”, aggiunge con leggerezza nell’intervista al Guardian.

Il video della Master Class di Goteborg, integrato con il suo intervento del 2019 presso la Film Society del Lincoln Center,  offre agli appassionati e ai curiosi l’opportunità di conoscere meglio le aspirazioni autoriali e il metodo del regista greco. Lanthimos si racconta con grande sincerità e umiltà come un artigiano del cinema, rivelando un talento da 24 carati.

Il presupposto da cui parte nella realizzazione di una storia è rinunciare a chiedersi il perché delle cose che accadono. Gli interessa esclusivamente farle accadere. Si rifiuta di «intellettualizzare» le vicende e chiede agli attori che facciano lo stesso. Non vuole che analizzino il testo e le situazioni in maniera ossessiva; preferisce che si lascino andare ad un approccio fisico, istintivo. Servono a questo i giorni di prova, prima che comincino le riprese, a cui Lanthimos difficilmente rinuncia. Giorni in cui discutere con gli attori, aiutarli a prendere confidenza con il resto del cast, con i luoghi di ambientazione.

Questo è il suo modo di lavorare prima del ciak iniziale. Ma ancor prima viene la fase della scrittura, a cui riconosce un’importanza fondamentale. Il metodo lo ha sviluppato in simbiosi con Filippou. I film scritti a quattro mani con l’amico copywriter nascono durante le loro discussioni su fatti curiosi, interessanti, che hanno vissuto in prima persona o di cui hanno sentito parlare.

Durante la Master Class di Goteborg, quando spiega che a unire Dogtooth e Alps non è il tema, ma  «il modo in cui pensiamo alle cose», aggiunge – parlando sempre al plurale, per sé e per Filppou – che «siamo interessati a trovare quelle idee, quelle situazioni che realmente mettono alla prova ed esplorano il comportamento umano. Questo è ciò che ci piace, e nasce da condizioni che potrebbero essere estreme».

Dogtooth - Yorgos Lanthimos
Dogtooth – Yorgos Lanthimos

Valga su tutti l’esempio rappresentato da Dogtooth, in cui un padre feroce, assecondato da una moglie complice e arrendevole, pensa di proteggere i suoi figli dal mondo esterno con l’isolamento assoluto e soprattutto manipolandone il linguaggio. I frutti perversi di questa didattica malata sono tre individui più simili ad animali di compagnia che ad esseri umani.

Cinema e maieutica

Assecondato da Filippou, Lanthimos ama «rinchiudere un piccolo gruppo di persone in una serra e stare a guardare come reagisce». Perché scrivere la sceneggiatura di un film è «come fare esperimenti, come essere in laboratorio»; significa «riuscire a mettere tutte queste persone in determinate situazioni e vedere cosa ne viene fuori».

Parole che lasciano trasparire un piacere sadico, ma solo nella scrittura dei film e solo a danno dei personaggi, perché nelle sue apparizioni in pubblico, sempre bonario e ironico, il regista dimostra grande umiltà nel raccontarsi e nel raccontare con dovizia di particolari il proprio lavoro.

La stessa umiltà riscontrabile nella natura maieutica del suo cinema, una qualità fuori dal comune che Lanthimos ricerca in maniera consapevole e determinata. Una consapevolezza che evidentemente rinviene della cultura millenaria a cui appartiene per diritto di nascita, e che lo ispira a non lanciare proclami, ricordandogli che nessun uomo possiede una conoscenza definitiva.  

«I nostri film sono abbastanza aperti, in modo che le persone possano pensarne ciò che vogliono. Vogliamo solo presentare una condizione o una situazione, esplorare i personaggi, e fargli fare cose che riteniamo pertinenti a ciò che stiamo esplorando», afferma il regista greco, le cui opere non forniscono spiegazioni, ma pongono domande. 

«E poi tocca allo spettatore – aggiunge Lanthimos – iniziare a pensare attivamente alla situazione. Vogliamo che venga coinvolto dal film, e che non guardi passivamente, dicendo: ok, è così e basta».

La visione dei suoi film è in grado di trasformare le sale dei cinema in gymnasium, dove si applica una pedagogia della partecipazione attiva, che sollecita lo spettatore a cercare la verità dentro di sé in maniera autonoma. E ciò accade per merito delle sue storie, inverosimili eppure tremendamente realistiche, che funzionano come laboratori, i cui esperimenti mettono alla prova la natura umana.

Testo di Michele Lamonaca 

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