L’umiliazione, Roth e il confine pericoloso tra finzione e realtà

Cinque romanzi negli ultimi cinque anni della sua carriera di scrittore. Tra questi c’è L’umiliazione, pubblicato nel 2009, nel quale il 76enne Philip Roth sembra dare spazio alla sua ansia senile da prestazione, dimenticando la complessità verticale della forma romanzesca. Leggere L’umiliazione, poco più di cento pagine, è come guardare il paesaggio che fugge via dal finestrino, lasciando sui vetri forme indistinte e lampi di colore.

L'umiliazione
Philip Roth

L’umiliazione: vita fallimentare di un grande attore

Simon Axerl appartiene alla cerchia degli ultimi grandi attori americani del teatro classico. Un bel giorno, quando ha ormai sessantacinque anni e una carriera costellata di successi, si rende conto d’aver perso la “sua magia”. Un “istinto” innato che fin da piccolo, difronte ai miracoli delle parole e dell’ascolto, gli avevano dato l’impressione di “trovarsi in una recita”. Il crollo è arrivato sul palco del Kennedy Center, vestendo i panni di Macbeth.

Dal quel momento la sua presenza ha svuotato i teatri e le critiche hanno fatto il resto, costringendolo al ritiro nella sua casa di campagna, fuori New York. Sua moglie Victoria, ex ballerina a cui Roth dedica poche righe, difronte all’inaspettata vulnerabilità del marito, fugge via abbandonandolo a se stesso.

Nasce così un periodo d’inferno, nel quale l’idea del suicidio si insedia nel mente dell’ormai ex attore, spingendolo a ricoverarsi per ventisei giorni in una clinica psichiatrica. Il medico che lo ha in cura lo invita a ricordare quel che è accaduto poco prima della crisi. E ad andare ancora più indietro con la memoria. Perché ritiene che la causa del suo male artistico vada ricercata necessariamente in un evento traumatico, evidentemente rimosso. Ma le cure mediche non sortiscono effetti. Axler trova invece sollievo nell’ascoltare gli altri ospiti della casa di cura, quasi tutti aspiranti suicidi, mentre discutono tranquillamente della loro ossessione autodistruttiva.

Tra questi c’è Sybil Van Buren, una donna esile di trentacinque anni, finita lì dentro per esasperazione, non avendo trovato la forza di denunciare il secondo marito, da lei stessa scoperto mentre abusava di sua figlia, una bambina di otto anni. Sybil Van Buren è un altro personaggio che non lascia tracce consistenti, se non per la tragedia che l’ha colpita. E comunque, ascoltare la sua storia, aiuta Axerl a sentirsi meglio. Tornato a casa riceve la visita del suo agente, Jerry Oppenheim, un uomo di ottant’anni che cerca di spronare il suo protetto, ricordandogli i tanti successi, la crisi di altri grandi attori che ne sono usciti indenni, le inevitabili e comunque superabili difficoltà dell’età che avanza. Inoltre ha pronto per lui il ruolo di James Tyron, protagonista di Lungo viaggio verso la notte. Axler, pur ringraziandolo, rifiuta perché sente di non poter più recitare.

L'umiliazione
Teatro

Vivendo in casa, la solitudine delle sue giornate e gli acciacchi fisici rodono la sua anima e di nuovo insinuano nella sua mente il pensiero del suicidio. Poi, sulla scena appare Peegen, figlia due vecchi amici, anche loro attori, che Axler ha conosciuto all’inizio della sua carriera. La donna ha quarant’anni, insegna in una università non molto distante, dove si è trasferita da poco e va a trovarlo a casa. Durante la cena, sono entrambi in vena di confidenze. Axler le racconta del suo ritiro dalle scene e lei del sua storia d’amore con una altra donna, finita male perché la sua amante ha deciso di diventare uomo. Forse spinti dal desiderio di consolarsi e dimenticare, i due si baciano e danno inizio ad una storia d’amore “imprudente e strampalata”, come la definisce la madre di lei. Peegen è una lesbica disinibita, ma nonostante l’età si preoccupa ancora del giudizio dei suoi genitori. E oltre ad essere infantile, è anche “egoista, spietata e amorale”, offrendoci una figura fin troppo stereotipata di lesbica volubile, capricciosa, senz’anima.

Axerl intuisce da subito che la loro storia andrà a finire male e che sarà lei a lasciarlo procurandogli un dolore incurabile. Ma ha bisogno di affetto, la sua vicinanza lo fa ringiovanire. Così prova a trasformarla in una donna, nella donna che vorrebbe, comprandole abiti e scarpe nuove. Peegen lo tradisce con due studentesse, ma lui fa finta di nulla. A letto se la intendono a meraviglia. Roth da spazio a scene di sesso in cui la ragazza prima esibisce una serie completa di giocattoli erotici e poi trascina il suo compagno in un rapporto a tre con una bella e giovane sconosciuta rimorchiata in un bar. Le scene in camera da letto sono la raccolta di licenziose ovvietà, che sfiorano il comico all’apparizione di un dildo verde. Sminuiscono entrambi i personaggi, compreso il lettore, che suo malgrado viene trasformato in un guardone costretto ad accettare l’inevitabilità di una lesbica che non può essere qualcosa di più di una raccolta di luoghi comuni.

Roth cede alla tentazione di esplorare ogni stanca fantasia maschile. Ciò nonostante Axler è convinto di poterla trasformare definitivamente e di costruire con lei un progetto di vita a medio lungo termine. Axler si sente pieno di energia, vuole operarsi per risolvere i problemi alla schiena, si sente pronto per calcare di nuovo il palcoscenico e vuole fare un figlio con la ragazza. A questo punto la sensazione è che Roth abbia percorso una strada banale per arrivare al trauma dell’abbandono, ancorando il lettore alla pagina. Infatti, proprio sul più bello, accade fatalmente ciò che Axler aveva previsto. Peegen lo lascia. E lui, dopo essersi umiliato davanti alla ragazza e al telefono con il padre di lei, ricade nello sconforto iniziale. L’idea del suicidio lo assale da capo e questa volta in maniera definitiva, alimentato anche dalla notizia che Sybil Van Buren ha trovato il coraggio di uccidere suo marito. E così Simon Axler si ammazza sparandosi un colpo di fucile, mentre mette in scena la sua ultima rappresentazione vestendo i panni di Trepliov, il tragico protagonista del Gabbiano di Cechov.

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Escher – Fonte: visitlisboa.com

Cortocircuito tra realtà e finzione, un capitolo a parte

Il romanzo di Roth soffre di pigrizia. Pur dimostrando il solito controllo della scrittura, attorno al protagonista costruisce personaggi poco credibili. Qualcosa in più della macchietta, qualcosa in meno del bozzetto. Parlano e si muovono come quei cattivi attori che mal interpretano il proprio ruolo. Soffrono dello stesso problema di Simon Axler: l’incapacità di rendere reale la finzione. Ed è questo il tema più interessante del romanzo. Molto più della vecchiaia, con i suoi mali e i suoi insoddisfabili aneliti di vita. Roth nasconde tra le pagine del suo libro una riflessione profonda sul ruolo dell’attore e sulle ripercussioni che questo può avere nella sua vita di uomo. Ma il passaggio dalla realtà alla finzione è vissuto anche dalle persone comuni, non solo dagli artisti, quindi Roth si occupa della condizione umana senza però ricorrere ad un discorso chiaro. Anzi, descrivendo il tormento di Axerl, dissemina il romanzo di indizi, come fosse un giallo, negandoci però la soluzione liberatoria. Tocca al lettore trovarla rileggendo e ragionandoci su.

Perché Simon Axler perde la sua magia? Come spiega lui stesso, ha sempre recitato d’istinto. Non è mai riuscito ad eseguire gli esercizi di memoria sensoriale. Quando doveva fingere di stringere tra le mani una tazza di the caldo, c’era una vocina dentro di lui che continuava a ripetergli: “Non c’è nessuna tazza”. L’essenza della sua recitazione stava nella reazione a ciò che udiva, impiegando concentrazione e intensità nell’ascolto. In questo modo è riuscito per tanti anni a scordare se stesso e a diventare la persona che agiva, creando nel pubblico quella suggestione profonda che conferisce all’azione scenica la verità della vita stessa. Se l’attore non crede nella veridicità delle sue parole, delle sue azioni sul palco, è finito. Gli spettatori non crederanno più alla magica illusione che è il teatro.

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René Magritte – La riproduzione interdetta

Simon Axerl è stato uno dei migliori attori in circolazione fino all’età di sessantacinque anni perché è riuscito a praticare l’amnesia di se stesso. Lontano dal palco non era nessuno. E quindi non ha costruito nulla di importante. Tutto ciò che aveva erano il lavoro, la fama e un’ex ballerina da cui non ha avuto figli e che messa difronte al suo cedimento lo ha abbandonato senza rimpianti. Simon Axerl, prima della crisi, non era mai stato nessuno se non i suoi personaggi, arrivando a fraintendere la realtà con la finzione. Il palco era la sua vita vera. Per questo è stato così grande. Ma ha solo ingannato se stesso. E la verità viene galla, come sempre, all’improvviso, senza alcuna avvisaglia, così come capitano le cose nella realtà.

Ma nel suo caso, la bugia è talmente enorme che il prezzo da pagare è terrificante. Seppure smascherata in un angolo recondito della sua anima, egli stesso non riesce a coglierla per intero. Ne subisce gli effetti senza riuscire a capirne i motivi. La sua magia di attore svanisce nel nulla e da quel momento pensare alla recitazione gli riempie la testa di dubbi, incertezze. Allora cerca di nasconderle dietro azioni in apparenza necessarie. Rilegge più e più volte il monologo, poi fa esercizio fisico, poi riposa e poi ricomincia tutto da capo. Ma sente chiaramente di non essere più in grado di recitare. Smascherato dalla vita non riesce a distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Non riesce più a convincersi di nulla, nemmeno della genuinità della sua sofferenza. Ha frainteso la realtà con la finzione ed ha preso coscienza d’essere un contenitore vuoto. Vorrebbe recuperare il tempo perso con Peegen. Da lei vuole un figlio, ma Peegen è la persona sbagliata. Non ha scampo. Non gli rimane che togliersi la vita perché tanto è già morto.

Ma pur imbracciando il fucile non ha la forza di premere il grilletto perché non esiste. Deve essere qualcuno altro, deve recitare, per tornare ad essere e compiere l’ultimo atto: uccidersi. Allora sceglie Il Gabbiano di Checov perché nel finale anche Trepliov si ammazza con un arma da fuoco; perché Trepliov è uno scrittore e anche lui è depresso a causa di un amore non corrisposto e perché nessuno ama la sua arte. Adesso che è Trepliov, Simon Axerl può finalmente troncare l’esistenza contraffatta e inconcludente nella quale è rimasto imprigionato tutta la vita realizzando la più spettacolare delle esibizioni, quella che va «in scena una volta sola», vestendo i panni di un uomo che si fa saltare le cervella.

Testo di Michele Lamonaca

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